Intervista al regista Michele Aiello a cura di Michele Gangemi
Come mai hai pensato di raccontare e filmare un momento così difficile?
Quando è scoppiata la pandemia e Conte ha dichiarato il lockdown nazionale, a inizio marzo 2020, ho pensato che era importante lasciare una traccia di memoria onesta, diretta e il più fedele possibile dal punto di vista di chi viveva e lavorava all’interno degli ospedali più colpiti della Lombardia.
Partivo da due urgenze: volevo fare un ritratto degli ospedalieri come persone normali e non come eroi; e pensavo che, come spesso succede in tante emergenze, nel momento in cui l’emergenza passa poi le persone si distanziano dal problema, lo rimuovono e non c’è una piena comprensione di quello che è successo. Da qui la mia spinta a dare un volto e dei nomi di vita quotidiana a un’emergenza che veniva raccontata solo nella forma di testimonianza indiretta fuori dagli ospedali.
Quali difficoltà personali hai dovuto affrontare girando il film?
La criticità più delicata è stata come rappresentare la sofferenza.
Quando sono entrato in ospedale ho subito capito che non potevo limitarmi a raccontare gli operatori sanitari, perché fin dal primo giorno, d’istinto, mi sono concentrato sulle relazioni umane che si creavano e scioglievano ogni giorno tra operatori e pazienti isolati.
E raccontando le relazioni non potevo rinunciare al punto di vista di chi stava lottando per la sopravvivenza. Filmare la sofferenza, però, è un’invasione estrema dell’intimità di una persona e molte persone ricoverate per Covid non hanno molta lucidità e non sanno bene cosa gli succede intorno.
Queste condizioni estreme mi hanno fatto scegliere, in alcune situazioni, dei punti di vista radicali: in alcune situazioni l’inquadratura rimane sui volti degli operatori che intervengono, lasciando fuori dall’inquadratura le persone sofferenti. Questa scelta netta è stata poi rafforzata in fase di montaggio e mi ha permesso di raccontare dei momenti delicati, facendo capire il peso emotivo per le persone coinvolte senza offendere la memoria (spero) delle vittime.
Come sei riuscito a ottenere il permesso nel reparto e il rapporto con gli operatori sotto stress?
Fin dall’inizio ho cercato un Direttore di un reparto perché speravo, nel suo essere medico, che condividesse la mia stessa esigenza di raccontare la storia.
Ho avuto la fortuna di incontrare il Direttore di Malattie Infettive degli Spedali Civili di Brescia, che si è poi rivelato essere un appassionato di Storia della Medicina, e che per la sua estrema sensibilità ha dialogato e ricevuto il benestare dalla Direzione Generale di quel periodo.
Per me era imprescindibile filmare in Lombardia, in quel primissimo periodo il centro della pandemia per il mondo occidentale. Ho così avuto la possibilità di filmare per un mese in ospedale, la maggior parte del tempo a Malattie Infettive, ma alcune giornate anche in Pronto Soccorso, in Rianimazione Cardiochirurgica e nella Tensostruttura provvisoria.
Quanti eravate a filmare?
In genere a filmare in un documentario si è in 3-4 persone. In questo caso era impossibile.
La scelta era farlo da solo o con qualcun’altro.
Ho avuto la fortuna che Luca Gennari, il direttore della fotografia, ha accettato di venire. Non solo Luca ha dato un taglio fotografico che dona al film un’immersione cinematografica davvero preziosa,
ma ha permesso che potessimo salvaguardarci dal virus molto meglio. In due abbiamo potuto controllare meglio i processi di sanificazione dei materiali e la procedura di vestizione e svestizione durante le riprese.
Farlo da solo sarebbe stato molto pericoloso, soprattutto per la possibilità di infettarsi.
Quanto ha interferito la presenza della videocamera?
Quando si fa un documentario c’è una fase di preparazione e sopralluogo, che ti permette di capire dove e quali momenti filmare e soprattutto quali persone seguire più di altre.
In questo caso io e Luca filmavamo tutto quello che scoprivamo giorno dopo giorno.
Penso che la situazione fosse così intensa e il lavoro così frenetico che ci fosse poca energia per farsi distrarre dalla videocamera. Però penso anche che ci fosse tanta voglia di raccontare questa storia e che quindi io e Luca siamo diventati dei compagni di viaggio delle persone dentro l’ospedale.
È probabile che per alcune situazioni le persone abbiano addirittura provato sollievo nel condividere con qualcun altro, soprattutto con degli occhi esterni, quello che altrimenti avrebbero vissuto da soli.
Quali reazioni hai suscitato nei pazienti o nei sanitari?
Il film viene interpretato in maniera diversa rispetto al vissuto che una persona ha avuto in quel primissimo periodo di marzo e aprile 2020, ma anche nei mesi successivi.
Gli ospedalieri mi hanno ringraziato per essere stato fedele, e non solo i lombardi. C’è chi, in altre città italiane, ha vissuto in maniera più pesante il periodo da novembre 2020 ad aprile 2021 e anche loro si rivedono nel film. Questa per me è una cosa ovviamente inaspettata e che non avrei potuto immaginare a marzo 2020.
Per i pazienti protagonisti del film, invece, la visione è qualcosa di catartico. Una delle protagoniste ha visto il film 6 volte al cinema…
Per altri pazienti che ho incontrato, il cui calvario è stato tremendo in ospedale, il film è “soft” rispetto a quello che hanno vissuto. Anche per alcuni operatori il film, ringraziandomi per aver restituito l’emotività e la dolcezza di molti gesti di quel periodo, mi hanno ringraziato per non aver indugiato nella tragedia e per essere stato delicato.
Questa interpretazione del film si scontra, in maniera sempre più evidente nei dibattiti dopo la proiezione, con il grande impatto che il film ha su chi invece non ha visto nulla di tutto ciò in prima persona. Per chi non ha vissuto quell’esperienza, il film è un’immersione molto intensa, che però restituisce un fondo di serenità e speranza grazie proprio al focus sulle relazioni umane.
Questa doppia interpretazione è molto significativa per me. Significa che c’è ancora tanto da lavorare in termini di comunicazione su quello che è successo negli ospedali da marzo 2020 a oggi.
Il mio film può essere uno strumento in questo senso. Alcuni stanno considerando il film come un mezzo terapeutico o come strumento di rielaborazione del lutto. Io non sono partito con questi intenti, ma se il film può servire a questi obiettivi nobili io ne sono orgoglioso.
Girare questo film ti ha posto problemi etici?
Rappresentare qualcuno nel cinema del reale ha sempre a che fare con l’etica fin dal primo momento.
Per me è fondamentale il rispetto e il patto etico con le persone.
Non si può veramente raccontare una persona se poi quella persona è contraria a come e cosa tu rappresenti.
In particolare, il racconto del passaggio tra la vita e la morte pone la questione a livelli d’eccezione.
Per questo con tutte le persone filmate ho instaurato un legame profondo, coinvolgendole nella visione del film prima della chiusura del montaggio e rendendole partecipi fino in fondo della loro rappresentazione cinematografica.
Il patto umano ed etico con le persone dovrebbe sempre essere superiore rispetto alla liberatoria legale. Sappiamo che non è sempre così, per varie ragioni.
IO RESTO: RESTARE PER RESTITUIRE? Perché questo titolo?
Come ho detto prima il film viene capito e interpretato in maniera diversa e questa cosa succede anche al titolo.
Aver trovato un titolo che le persone possono prendere e interpretare liberamente è una cosa molto bella.
Per me all’inizio Io Resto si ispirava a #iorestoacasa, spogliato della veste casalinga. Per me significava “io sono una lavoratrice in ospedale e non faccio un passo indietro, non me ne vado, rimango qui dove è il mio posto nel mondo”. Quindi Io Resto per me aveva un significato molto umano e molto poco eroico.
Poi una delle protagoniste sopravvissute, prima di chiudere il montaggio, mi ha regalato l’interpretazione dal suo punto di vista di paziente.
Mi ha detto “io resto, io posso dire di essere restata, perché ha combattuto per rimanere in vita”. E questo mi permette di ritornare alla molteplice interpretazione del film e del titolo. Man mano che il film gira, i dibattiti continuano a regalare nuovi significati al titolo.
COME POSSONO I SOCI VEDERE IL FILM?
Il film sta girando per i capoluoghi di provincia ma sta cominciando a girare anche nei paesi.
A questo link si possono vedere le date in cui viene programmato, ma ognuno può dare il suo contributo partecipando alla “distribuzione civile” del film.
Se il film non è ancora arrivato nel proprio paese, si può contattare il cinema locale (es: tutte le sale parrocchiali d’Italia sono state messe a conoscenza del film grazie alla rassegna Oltre la notte) e chiedergli di programmare il film, magari in collaborazione col Comune locale. Altra opzione è noleggiare direttamente il film (scrivendo a di***********@za***.org) e proiettarlo in una sala comunale, un convegno, un ospedale, un corso universitario, una biblioteca e altri luoghi adatti a vedere in film in compagnia. Il film è disponibile #soloalcinema nel senso che non è possibile vederlo online su qualche piattaforma. Questo film più di altri, soprattutto in questo momento, va visto e discusso insieme.