Il p-value: semplice nella definizione, complesso nell’interpretazione

Uno degli argomenti più utilizzati e fraintesi in statistica è il p-value. Spesso, nella sua interpretazione, possiamo perdere di vita il suo significato. Il p-value è la probabilità di osservare un risultato uguale o più estremo rispetto a quello ottenuto, assumendo che l’ipotesi nulla sia vera. Quando questa probabilità è inferiore a una soglia predefinita (generalmente il 5%), la consideriamo “troppo piccola” per sostenere l’ipotesi nulla, che viene quindi rifiutata a favore dell’ipotesi alternativa. Questa soglia, tuttavia, è del tutto arbitraria. Corrisponde all’accettare di “concludere il falso” circa 1 volta su 20 confronti. Sebbene sia comunemente accettata, sarebbe più opportuno adeguarla al contesto specifico e all’impatto delle decisioni derivanti dallo studio.

Un’ulteriore problema dell’interpretazione acritica del p-value è  la semplificazione dei risultati continui in valori binari per facilitare le decisioni: un p-value <0,05 viene interpretato come “positivo” (rifiuto l’ipotesi nulla a favore dell’ipotesi alternativa), e >0,05 come “negativo” (non rifiuto l’ipotesi nulla).  Tale approccio può portare a conclusioni fuorvianti. Per esempio, il p-value dipende strettamente anche dalla numerosità campionaria: studi con campioni numerosi possono risultare in p-value “positivi” per differenze cliniche non importanti, mentre studi con campioni piccoli possono produrre p-value “negativi” anche per differenze clinicamente importanti, a causa della bassa potenza statistica. Anche per questo motivo, interpretando i risultati di uno studio, è essenziale ricordare che un p-value “negativo” non dimostra la verità dell’ipotesi nulla, ma indica solo che i dati non forniscono prove sufficienti per rifiutarla; e che un p-value “positivo” non implica necessariamente un risultato importante.

La dicotomizzazione è una caratteristica intrinseca della vita quotidiana, poiché spesso ci troviamo di fronte a scelte binarie (per esempio, prendo il treno o non lo prendo?). In queste “dolorose” situazioni, stabiliamo un criterio a priori e poi lo rispettiamo. Tuttavia, in medicina, abbiamo il vantaggio di poter modificare le decisioni: ad esempio, decidere di usare una terapia  basandosi sulle evidenze disponibili al momento e, successivamente, rivalutarne l’uso in base a nuove evidenze. 

Comprendere correttamente questi concetti è fondamentale per evitare interpretazioni errate.

Se vuoi saperne di più

https://acp.it/assets/media/Quaderni_acp_2024_316_261-262.pdf

https://evidence.nejm.org/doi/pdf/10.1056/EVIDe2400405

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